Il recente decreto del Ministero dell’Agricoltura, che consente alle cantine italiane di produrre vino dealcolato direttamente in azienda, ha suscitato reazioni contrastanti nelle Langhe, terra di eccellenze vinicole e tradizioni secolari. Se da una parte questa innovazione promette nuovi mercati e opportunità, dall’altra solleva preoccupazioni per l’identità stessa del vino.
"È un prodotto che non ha più nulla a che fare con il vino", afferma Enrico Nada, presidente di Coldiretti Cuneo. "La legge definisce il vino come il risultato della fermentazione dell’uva. Continuare a chiamare vino un prodotto dealcolato significa snaturare una definizione antica e il senso agricolo di questa bevanda. Per ora il decreto vieta la dealcolazione per le Doc e le Docg, ma le leggi cambiano, e nulla impedisce che un giorno anche queste denominazioni possano essere coinvolte. Questo ci preoccupa enormemente: stiamo parlando di un prodotto industriale, non agricolo. Se lo si fosse chiamato bevanda, non ci sarebbe stato nulla da ridire. Ma non possiamo accettare che questa innovazione diventi un pretesto per aggirare le difficoltà di alcuni territori vitivinicoli, compromettendo la tradizione e la qualità che difendiamo ogni giorno nelle nostre vigne".
Anche nel mondo della ristorazione emerge un netto dissenso. Massimo Camia, presidente dei ristoratori albesi, è categorico: "Cadiamo nell’orrido, come con l’hamburger vegano. Siamo nella terra del vino, e il vino è vino. È il piacere di assaggiare un prodotto completo, come è sempre stato. Questo non è altro che un succo di frutta. Innovazione o no, non possiamo accettare che nelle Langhe si perda il senso di ciò che siamo. Togliere l’alcol significa snaturarne l’essenza. È una tristezza, come guidare una moto con cambio automatico: un’esperienza incompleta".
Articolata la posizione di Claudio Conterno, presidente della Cia Cuneo e produttore vitivinicolo: "Non ci siamo mai opposti in modo categorico: il mondo cambia, e noi lo osserviamo. Tuttavia, siamo preoccupati per la confusione che questa innovazione potrebbe creare. Il vino dealcolato non dovrebbe mai essere presentato nello stesso modo dei nostri vini tradizionali. Sarebbe stato più corretto chiamarlo mosto d’uva o bevanda a base d’uva, perché è evidente che non ha le caratteristiche del vino. Inoltre, non possiamo ignorare l’impatto ambientale e tecnologico: i processi di dealcolazione come l’osmosi inversa o la distillazione richiedono risorse e comportano sfide di sostenibilità. E poi c’è il problema della conservazione: l’alcol è un conservante naturale. Rimuoverlo significa introdurre additivi o tecnologie che allontanano ulteriormente questo prodotto dalla sua origine agricola".
Conterno sottolinea anche la necessità di mantenere una netta distinzione tra il vino tradizionale e quello dealcolato attraverso il packaging: "Non possiamo accettare che il vino dealcolato venga confezionato in bottiglie di vetro simili alle nostre. Sarebbe più opportuno usare bag-in-box, tetrapack o lattine, per distinguerlo chiaramente e collocarlo nel mercato delle bevande, non in quello del vino. Altrimenti si rischia di confondere il consumatore e di danneggiare la reputazione del nostro territorio".
Il dibattito resta acceso, diviso tra chi vede un’opportunità per conquistare nuovi mercati, come quelli arabi o musulmani dove il consumo di alcol è vietato, e chi teme una pericolosa omologazione. L’identità delle Langhe, radicata nella tradizione e nel legame con il territorio, è messa alla prova. Come conclude Conterno: "Io credo che sia meglio bere un bicchiere di vino buono che rincorrere mode che rischiano di svuotare il significato di ciò che produciamo da secoli".