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Al Direttore | 22 aprile 2025, 10:25

Liberazione, Livio Berardo risponde a Sacchetto: "Solo nei western la distinzione tra buoni e cattivi è netta e indiscutibile"

"Neanche quest’anno a 80 anni dalla Liberazione Giorgia Meloni e Ignazio La Russa celebreranno il 25 Aprile. Eppure si tratta solo di una scelta: di valori, come fu per i nostri padri o nonni l’8 Settembre del ’43, ma senza gli angoscianti condizionamenti di allora"

Il professore Livio Berardo, storico ed ex presidente dell'Istituto Storico per la Resistenza

Il professore Livio Berardo, storico ed ex presidente dell'Istituto Storico per la Resistenza

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Livio Berardo, in risposta a quella del consigliere regionale Claudio Sacchetto sul dibattito relativo alla Liberazione.

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La storia non è così semplice come la immagina il consigliere regionale Claudio Sacchetto. È solo nei western che la distinzione fra buoni e cattivi risulta netta e indiscutibile. Le università di Cambridge e Oxford, assieme con altri istituti europei e americani, hanno dedicato una quantità impressionante di studi per indagare i punti comuni e le differenze fra stalinismo e nazismo. Nei primi rientrano i sistemi polizieschi e la logica totalitaria. Più numerose le differenze: l’imperialismo tedesco era aggressivo, anche perché alimentato dalla teoria delle razze che prevedeva la distruzione di alcune (ebrei, zingari), l’assoggettamento e l’asservimento di altre (slavi). Nel “nuovo ordine mondiale” il posto degli italiani non sarebbe andato oltre a quello di cuochi e camerieri, visto che dal 1941 parte delle leggi di Norimberga era stata estesa agli “alleati” (la subalternità di Mussolini e dei fascisti nei confronti del Reich, soprattutto nella fase salotina, è sconvolgente). Quando nel 1938 scoppiò la crisi dei Sudeti, i governi di Francia e Inghilterra pensarono che un’alleanza con l’URSS, oltre ad essere compromettente sul piano sociale, fosse inutile, viste le ridotte capacità offensive dell’Armata rossa. Inoltre il Partito nazionalista allora al potere in Polonia, che aveva messo fuori legge i comunisti e ridotto i diritti della cospicua minoranza ebraica, si rifiutò di concedere il passaggio alle truppe russe per un eventuale soccorso al governo di Praga. Hitler invase i Sudeti e il governo di Varsavia ne profittò per occupare la città di Teschen, anticipando in piccolo quello che sarebbe stato lo scellerato patto Ribbentrop-Molotov (questo stipulato a danno dei polacchi). Édouard Daladier soleva ripetere che la Francia combatteva per “la libertà e i diritti dei popoli”. In realtà una buona parte delle truppe francesi erano sudditi delle colonie senza alcun diritto. Con l’occupazione del territorio metropolitano e il collaborazionismo di Vichy, nelle truppe gaulliste di “France libre” la componente africana divenne maggioritaria, raggiungendo le 410 mila unità. Per incitare i marocchini a combattere, si lasciava loro mano libera per il dopo battaglia: i saccheggi e gli stupri perpetrati in Ciociaria hanno lasciato una traccia pesante nella nostra memoria storica e cinematografica. Ai soldati neri si prometteva un salario e una liquidazione. Furono però sempre trattati come carne da cannone. Quando i fucilieri senegalesi protestarono per le condizioni di trattamento, vennero rimpatriati per ordine di De Gaulle e massacrati.

Imponente fu anche il ricorso alle truppe coloniali da parte inglese. Solo Kenya, Uganda e Tanganika fornirono all’Impero oltre 320.000 combattenti, agli ordini di ufficiali britannici, sottoposti a punizioni corporali per inadempienze minime. Se i paesi del Commonwealth di popolazione prevalentemente bianca (Canada, Australia, Nuova Zelanda) che disponevano di governi nazionali, furono informati della dichiarazione di guerra, i governi autonomi locali dell’India, la colonia più grande che era amministrata da un viceré, non furono mai sentiti e tuttavia 320.000 uomini furono mandati a combattere: 100 mila morirono negli scontri, altrettanti nei lager. Di questi una ventina di migliaia perirono combattendo per i tedeschi o i giapponesi. Per odio antinglese avevano infatti aderito alla cosiddetta Legione indiana. In estremo oriente l’occupazione nipponica della Birmania indusse le autorità britanniche a bloccare, con il controllo della navigazione, le importazioni di riso, fondamentali per l’alimentazione dei bengalesi, penalizzati nel 1944 da un cattivo raccolto. Vi furono 3 milioni di morti. Churchill a una richiesta di invio di cereali oppose un rifiuto. Del resto quanto a durezza coloniale lord Winston non scherzava. Per lui Mohandas Gandhi era «un fanatico sovversivo», «un sedizioso avvocaticchio, un fachiro, che sale seminudo i gradini del palazzo del viceré».

Il Sudafrica mandò truppe bianche e di colore, rigorosamente segregate. Gli afrikaner erano soprattutto aviatori e paracadutisti (apparteneva alla South African Air Force il bombardiere caduto a monte di Ostana il 12 ottobre 1944). I neri, più numerosi, rientravano per lo più nella fanteria e venivano mandati all’assalto sotto il fuoco delle mitragliatrici. Anche nell’esercito USA il sacrificio degli afroamericani è stato percentualmente superiore a quello dei wasp, benché la nazione fosse guidata dal presidente più progressista di tutti i tempi: le sue politiche economiche, sociali, ambientali, l’impressionante progressività del fisco farebbero inorridire gli odierni populisti di entrambe le sponde dell’Atlantico.

Per venire alla resistenza italiana, Sacchetto ignora completamente il contributo dato dalle varie formazioni, quando afferma che “sostanzialmente dal punto di vista militare i soldati sono stati i principali artefici del successo della Resistenza”. In altri termini l’apporto più incisivo sarebbe venuto dalle bande autonome, imperniate attorno a militari di carriera. Nei fatti la mentalità del Regio esercito si dimostrò un forte ostacolo a capire le esigenze di una guerra non più frontale, ma di guerriglia. La banda di Martini “Mauri” nella battaglia di val Casotto del marzo ’44 pagò un prezzo esorbitante fra caduti e prigionieri destinati alla deportazione per la rigidità delle difese. Molto più flessibili ed efficaci si rivelarono quanti avevano partecipato alla guerra di Spagna nelle brigate internazionali, per non parlare del livornese Ilio Barontini, che con altri militanti comunisti si era recato in Etiopia ad addestrare gli abissini nella guerriglia contro l’occupante italiano. La conoscenza del territorio era poi indispensabile. Il garibaldino Arrigo Boldrini ideò e guidò la liberazione di Ravenna, evitando i bombardamenti, che avrebbero causato vittime fra i civili e gravi danni all’inestimabile patrimonio artistico della città. Il generale Mac Creery non solo accettò il piano, ma, dopo il successo che aveva anche ridotto al minimo le perdite anglo-canadesi, decorò Boldrini con la medaglia d'oro al valore militare. Gran parte delle fabbriche e delle centrali elettriche nel Nord nei giorni della liberazione fu protetta e salvata dalle SAP operaie. Quanto all’obiettivo per cui combattevano i partigiani comunisti, esso non era “l’istaurazione di un’altra dittatura”, bensì la conquista di un’Assemblea costituente, per dare al paese un ordinamento più democratico e avanzato di quanto lo fosse quello previsto dallo Statuto carlo-albertino. A tale parola d’ordine era arrivato Antonio Gramsci nelle sue riflessioni di prigioniero politico sull’ascesa del fascismo, realizzata non solo con la violenza, ma anche sfruttando gli errori del PcdI e delle altre forze politiche. I “Quaderni dal carcere”, arrivati a Cambridge grazie all’economista Piero Sraffa e di qui a Mosca, erano noti a Togliatti sin dal 1938. Come membro del Comintern inoltre era al corrente delle intese fra Churchill, Roosevelt e Stalin sul futuro assetto dell’Europa. Sapeva in quale sfera di influenza ricadeva l’Italia. Nella sua prudenza non avrebbe mai fomentato follie simili a quelle dell’ELAS greco. Solo estremisti alla Toffanin, legato ai comunisti sloveni, potevano ordire trappole come quella di Porzûs ricordata da Sacchetto, in cui furono uccisi 17 combattenti della Brigata Osoppo, di ispirazione prevalentemente cattolica. L’episodio non sarà mai abbastanza deplorato. Purtroppo non fu il solo: altri se ne registrarono a parti invertite. Senza correre lontano, nel dicembre del ’43 una trentina di partigiani insediati a San Giacomo di Roburent fu catturata da un ufficiale della rete messa in piedi dal generale Operti, il ten. col. Mario Ceschi, pure lui albese. Tradotti nella caserma Piave di Fossano, in tempi diversi vennero deportati in Germania: solo due faranno ritorno. Di quei trenta pochi erano garibaldini, molti erano semplicemente repubblicani. Per il monarchico Ceschi ciò bastava per considerarli sovversivi. I badogliani sostituirono Ceschi con il maggiore Enrico Martini, monregalese. L’obiettivo non era più distruggere i garibaldini, ma usarli in posizione subalterna. Così l’occupazione di Alba nell’ottobre del ’44, in realtà un abbandono contrattato con il presidio fascista, fu decisa senza informare garibaldini e GL che pure si unirono nell’azione e parteciparono alla difesa della città fra il 1° e il 2 novembre, subendo le perdite più pesanti (4 morti su 5). I garibaldini infatti erano male equipaggiati. Mauri aveva ottenuto dagli inglesi il monopolio degli aviolanci di viveri e armi automatiche. Con queste risorse lusingava le altre bande spesso attanagliate dalla fame. Così il 31 agosto 1944 il vicecomandante dalla 16a brigata Garibaldi Matteo Abbindi uccide a Cortemilia il proprio superiore Angelo Prete e passa con gli uomini alle sue dipendenze fra le file degli autonomi. I partigiani fedeli alla vecchia formazione reclamano la consegna di Abbindi per processarlo. Mauri rifiuta. Si rischia lo scontro armato. È il commissario politico della Garibaldi Nanni Latilla a frenare il risentimento e avviare una trattativa. Dopo qualche giorno Mauri comunica che Abbindi è caduto in combattimento. In realtà lo ha mandato nell’entroterra ligure. Solo a gennaio del ’45 sarà catturato dai marò della San Marco e il 1° febbraio fucilato a Cairo Montenotte.

Il finale dell’articolo di Sacchetto è terrificante: la vera liberazione secondo lui avvenne il 18 aprile 1948, quando gli italiani “scacciarono l’invasore comunista”. Dove abbia scovato la notizia di una invasione è un mistero, le elezioni pur con una propaganda accesa si erano tenute senza incidenti. In quei mesi c’erano sì morti ammazzati sulle piazze o davanti ai cancelli delle fabbriche. Ma erano operai che protestavano contro i licenziamenti e il carovita. A sparare era la polizia di Scelba, mentre in Sicilia contro i braccianti premevano il grilletto banditi o mafiosi, assoldati dagli agrari per impedire la distribuzione delle terre incolte. Alla lotta contro la malavita insulare il ministro dedicava risorse minime. La sua ossessione erano i comunisti. Con il consenso dell’ambasciata americana avrebbe voluto metterli fuori legge. Come durante la lotta di liberazione e nei giorni del grave attentato neofascista fu Togliatti a esortare i suoi a non fare pazzie, così a tenere la barra dritta e bocciare l’istanza di Scelba, che avrebbe portato a una guerra civile, fu il vincitore delle elezioni del 1948, Alcide De Gasperi.

Quanto alla rottura del Pci con l’Unione Sovietica degli anni ’70, essa non fu repentina, ma preparata da progressivi passaggi, le cui tappe furono il togliattiano “Memoriale di Yalta” e la condanna dell’intervento russo a Praga, pronunciata sotto la segreteria di Longo. Così la svolta di Berlinguer fu costruita e accettata dalla stragrande maggioranza del partito. Non altrettanto avvenne nel campo avverso vent’anni dopo, quando Gianfranco Fini a Fiuggi riconobbe le ragioni storiche dell’antifascismo, senza però giudicarlo “valore a sé stante e fondante”. Neanche quest’anno a 80 anni dalla liberazione Giorgia Meloni e Ignazio La Russa celebreranno il 25 aprile. Eppure si tratta solo di una scelta: di valori, come fu per i nostri padri o nonni l’8 settembre del ’43, ma senza gli angoscianti condizionamenti di allora.

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